Mario Ricca

Germogli di vuoto, l'altrove e l'inaudito

1. L’Altrove (Serie di ardesie).

L’essere è sempre inattuale. L’esserci un’illusione, imprigionata nelle segrete di uno sguardo condannato a una visione retrospettiva. È il nostro essere impastati di pensiero, di rappresentazione a renderci ostaggi, senza possibilità di riscatto, di un onnipresente Altrove. È l’abisso della memoria a tenerci avvinti. Memoria cosciente, rimmemorabile, palestra del ricordo, e memoria senza nome né volto, il nostro lato oscuro, profondo, inattingibile, eppure nostro oceano, liquido di galleggiamento per l’instabile e fragile barca della coscienza. Un’oscurità onnipresente, fatta di quel che non si vede e di quel che non c’è più, ma che ci è midollo, è dentro di noi e, al tempo stesso, in un irraggiungibile Altrove. Siamo e non siamo. Intuiamo, a volte, questo stato di orfana duplicità, il nostro essere figli di un buio che ci è padre ma si nasconde occultandoci a noi stessi. Ci è impedito, però, di vederlo riflesso nel vivere proprio, in quella metafora del mondo che chiamiamo Io. Abbiamo bisogno dello specchio Altrui. Per metterlo in scena dobbiamo accoppiare, in un vertiginoso e orrido amplesso, l’Io e il Tu, sciogliendoci nel gesto di rendere la rappresentazione realtà. Nell’azione sublimante e alienante del rappresentare l’Altro, l’altrui volto sia questo vero o solo immaginato, il nostro buio interiore riflesso nel suo, nel mistero che egli o ella è per noi, appare invece il volto dell’assenza, il lato oscuro, sostanza di ciò che siamo.
Come barche nere, dai fianchi catramati, conquistano allora la superficie i nostri occhi, indizio dell’abisso, per un istante eterno, immortalante, disincagliati dal fondo livido di quel che è e non è, che è presente e assente, dilagante attualità e remoto altrove. Il loro fiammeggiare è come una pietra d’ardesia che ospiti la messa in scena di un sogno, nient’altro che l’allucinazione della vita. Sogno, appunto, il territorio dell’Altrove. Dove siamo coscienti quando non lo siamo, dove tutto vive su uno sfondo grigio, indefinito, materia prima di forme improbabili, di tempi rovesciati, di spazi scippati dei loro confini usuali.
Sostanze sognate sono i paesaggi dei nostri pensieri. Momenti di vita solo immaginata, che curvano il presente, l’agire, la materia attuale, con la forza ineffabile della loro pervasiva assenza. Le figure dipinte sull’ardesia da Simone sono perciò restituite alla verità dell’esperienza. Semplicemente. L’oscurità dalla quale balza la forma è il luogo distante verso il quale puntano quello, quell’altro o questo loro occhio i suoi finti viventi. Essi sembrano dirci che la vita è altrove e lì sono le sue radici, le cifre di un presente che è inestricabilmente enigmatico. Un presente che tesse inesausto l’inganno della sua evidenza, del suo essere qua, ma che è invece solo segno di un prima, di un dopo, di un di là. Segno e perciò sogno. Eppure sogno dunque segno, emulazione di una realtà che solo all’occhio del pittore, del rappresentatore, rivela al sua inconsistenza materiale, in suo essere intreccio fittissimo di altri segni, e quindi di sogni che rinviano a altri se stessi, in un vortice che si autosostiene in un cosmo colmo dell’indicibile. Lo stesso cosmo, la stessa densa e cieca profondità dalla quale misteriosamente germoglia l’adesso, per poi svanire, inghiottito tra i drappi della memoria di una donna, di uomo e, nello specchio di ciascuno di essi, della specie, del tempo, dell’origine.
«Noi siamo impastati di ciò che manca» sembra far dire Simone ai suoi attori d’ardesia, emersi anch’essi sulla superficie porosa e tremula di una pietra sognante, metafora della nostra insuperabile incertezza circa il nostro esistere.
«Tu mi vedi dunque sono» recita un’ottimista adagio filosofico. Gli esseri, le creature di pietra, tracciate sull’oscurità d’ardesia da Simone parlano però un’altra lingua, dicono un’altra verità. «Mi vedi e dai corpo a ciò che non sono, quest’essenza vitrea, spettrale che racconta anche di te, del vuoto che ti partorisce»: è questa l’altro, l’unico vero mistero narrato con parole d’eco da queste realizzazioni. Esse dicono che l’inferenza «…dunque sono» è una conclusione impossibile. La riduzione dell’essere umano a una realtà, a una certezza, è nient’altro che un altro sogno, e quella certezza soltanto qualcosa che può esistere alle nostre spalle, impossibile da toccare nel presente, nell’ora. La certezza è sempre e comunque solo un ricordo. Questo il suo statuto. Così gli occhi di queste figure puntati verso l’altrove, e perciò sabotatori del presente, sembrano incarnare la voce di Platone, il suo urlo più potente dei secoli e pacificamente rassegnato al carattere onirico della realtà, dell’eternità delle forme. Esse sono eterne ed eternamente reali forse proprio perché sono parto del sogno. Anzi, è il nostro riconoscerle come tali a donare a esse eternità. Prima di esse tutto e niente, uno spazio senza spessore e senza tempo, dove ogni cosa avviene e si scioglie, evaporando in mutevoli connotazioni, prima ancora di aver acquisito la sua forma. Se l’unica realtà è solo quella che possiamo ricordare, se l’unica forma autotrasparente è quella rimembrata, allora la realtà vera, non mitologica, il modo d’essere delle cose, è sogno, e senza requie è il ritmo immisurabile del suo esistere.
«Ricordati che non ci sei, e adempi questo tuo compito ogni volta che mi guardi, e che ti vedi, ti senti pensante riflesso nel mio sguardo fittizio». Ecco il monito di queste figure. Il monito che l’autore infligge a se stesso nel tracciarle sulla pietra, come a voler rendere duro e durevole il non esserci che evoca e al quale dà forma. E come ogni monito arriva, per urgenza emotiva, a trasformarsi in parola, in sguardo comunicativo, illocutorio, diretto, cogente, di quelli che fanno palpitare il «tu» che siamo e diventiamo quando qualcuno lo rivolge a noi, i soggetti. Regalando fuoco a questo sguardo, quindi, alla fine, Simone si tradisce? Si contraddice? Non resiste a inscenare, come una sorta di lieto fine, la consolazione illusoria del presente, del percepirsi cosa, realtà, sotto il fuoco delle pupille altrui. Sì, forse sì, ma con un coerente pentimento. Si legga, tra queste ardesie, Stille. Lì il sogno/segno non è più immagine, riferimento a un altrove visto con gli occhi della mente, ma controcampo del silenzio, dell’ammutolimento. «Cosa vuoi dirmi, tu che mi fai esistere?» verrebbe da chiedere alla donna dagli occhi traboccanti di un latteo nero corvino. Estremo atto di sincerità, l’assenza esiziale della bocca, dice senza parlare l’estrema verità: «ti dico quel che non è dicibile, il non-presente, l’assenza che sei!». Atroce rivelazione, insostenibile, teatralizzata, quasi per pietà, da Stille 2: immagine di una donna in posa funerea, che con il suo rifiuto di guardarci e di dirci, da sotto il suo nero copricapo, fissa ciò che non è più. È tragica la visione che ci regala il pittore e che culmina, quasi dialetticamente nell’apoteosi della gioia incarnata dai teschi, simulacri della vanità.
Simone forse non sa di saperlo o fa finta di non saperlo. Fa credere, a chi guarda la metafora ossea della vanità, che il mondo reale non c’è, che è una contingenza vaporosa, implacabilmente separata dall’Io, dal nostro sapere di noi, a causa del guado della morte. Eppure egli dona alle cavità oculari dei crani la stessa capacità di farsi protesi, protensioni verso al vita. Si osservi bene. Il primo teschio è rivolto anch’esso a un Altrove. Un Altrove preciso, non vago come l’assenza della vita che questa volta si appalesa già da sé come assente, e che anzi dell’assenza fa una sua onnilaterale verità, qualcosa di certo, accaduto. Ciò nonostante, il teschio continua miracolosamente a fissare qualcosa, come se la barricata tra sé e la vita non esistesse; come se il fissare l’Altrove cancellasse la morte, facendo dell’assenza, di quello che non è più qui, l’unico ed eterno presente. Il teschio, però, non può essere altro che uno specchio. Esso non guarda e non può guardare. Siamo noi a essere sospinti a vedervi la vita, a coglierla nonostante l’assenza o, piuttosto, a identificarla finalmente con quel che non c’è. Simone inscena un trucco, una trappola, per costringere il lettore del quadro ad assaporare la sostanza di quel che non c’è. Ed eccone la conferma, in Vanitas 2. Il teschio è recluso oltre una grata, la muraglia del presente. Eppure nel suo non essere qui, nell’essere posto esso stesso in un Altrove ridondante rispetto a quel che già è di per sé, il teschio ritrova e indica la radice della vita. Nel suo occhio, nell’abissale orrido del suo occhio, sembra leggersi una figura, che sembra quasi quella di una bambina, o di una vecchia, o di un anziano… cosa importa? Certificati, imposti, sia l’assenza sia il non essere, ecco che l’essere stesso ricompare, dilaga, germogliando in figura d’infanzia. La grata luccicante si rivela solo come l’inizio di una galleria prospettica, di una fuga di segni/sogni, unica vertiginosa sostanza della realtà.

2. L’Inaudito – Serie di incisioni.

Dall’assenza narrata per sguardi e atteggiamenti, inscenata come quel che non essendo siamo, Simone sposta e trasfigura il suo vedere proiettato sulla nostra ambigua esistenza nel non detto, nell’indicibile, nell’omesso, nel rifiutato, nell’inudibile, inaudibile e inaudito. Ipostasi corporea di tutto ciò è l’essere vivente sorpreso nell’atto di tacere. Così, la serie delle incisioni mostra personaggi muti, imbavagliati da una cortina di silenzio autoimposto o, comunque, coestensivo al loro modo di apparire.
Il “Cerchio” invita (quasi costringe) l’osservatore a focalizzare lo sguardo su un volto di donna dagli occhi non solo resi inespressivi ma velati, così da farli apparire di pietra, immoti, “già stati”. La loro inpenetrabilità sembra coincidere con un’altera rinuncia alla vita. È solo un gioco strategico, però. La spenta ottusità dello sguardo serve a dirottare l’attenzione sulla bocca, quasi in attesa di un contrappeso, di un equilibrio dialettico, capace di ridare vita alla figura, di farle dire qualcosa. Ed è un dire forte. È l’unico dire consentito a due labbra serrate. Il silenzio, un silenzio voluto. Sta tutta qui la sincerità, la trasparenza del personaggio, come degli altri che seguono nella serie. Il silenzio è sincero perché evoca e sospinge a tuffarsi nell’inaudito, nell’informe, nell’indefinito, nel vuoto. Nella realtà.
Nella loro apparente negatività i personaggi di queste incisioni sono salvifici. Lo è persino la ragazza dallo studiato atteggiamento di sfida, quasi perfido ritratta in “Incisione 1”. Occhio indifferente, quasi insensibile agli stimoli della luce, della vita, al limite del disprezzo, affetto da una sorta di sopore che sa quasi di morte apparente. È tuttavia un contraltare, un controindizio, subito bilanciato e smentito da un labbro inarcato, deciso, intransigentemente chiuso in un silenzio dichiarato, promesso, inattraversabile. Una negazione incarnata, si direbbe. Ancora una volta, è però un negare trasparente; un dire «non dico», perché tutto quello che so, che c’è, giace già dietro le mie spalle, anche di là dal muro contro il quale si staglia la mia ombra. Io stessa sono un’ombra della mia ombra, e il muro è il sipario della mia apparenza. Il non dicibile deve rimanere inaudibile, perché è inaudito; è quel che non puoi sapere, tu che mi guardi, ma che sai meglio di ogni altra cosa perché ne sei fatto. È un mistero chiarissimo, evidente, che ci ostiniamo disperatamente a ignorare, ubriacati da quel che è, solo perché crediamo sia tale. Tutti noi, io che sono finzione, che non sono una ragazza (come mi farebbe dire Magritte) e tu che non sei altro che figura, rappresentazione di te stesso a te stesso e agli altri Io.
È così che si vola in groppa a Ronzinante, alla sua morte, annunciata con ritardo perché già avvenuta. Uno scarto temporale testimoniato dall’ossificazione dell’amico fedele di Quijote, dalla sua consistenza ormai ridotta a cranio, condannata a un silenzio fatto materia, storia. Eppure questo Ronzinante morto parla più del Ronzinante vivo, che a eccezione di qualche nitrito tace, pacificamente accompagnando l’infinito dire e immaginare di Quijote, il suo inesausto battagliare e vagare nella terra di mezzo tra sogno e realtà avventurosamente battuta dal cavaliere errante. E se i sogni di Alonso Quijano si dimostrano alla fine degni di una realtà e di una interna coerenza più forte dal mondo reale è solo per decretare la morte del suo eroico Alter Ego, il suo abdicare all’azione, il suo spegnersi in una pace distaccata, benevola nei confronti dell’umanità e dei suoi destini. Dove, però, Quijote può morire, e non può far altro se non morire, Ronzinante c’è già stato da vivente grazie al suo tacere, al suo rimanere sempre lì, accanto al padrone. Ecco perché il suo cranio, di fronte a un taciturno, ammutolito Quijote, è testimonianza di ciò che la vita è sempre stata, simbolo materiale della sua inaudita sostanza. Il silenzio triste di Quijote è forse presentimento della propria stessa morte ma anche presenza, attualità del suo essere vissuto per l’immortalità. La ricompensa per il suo coraggio nell’avventurarsi dentro il sogno, per aver creduto che è tutto solo una credenza, e aver scelto la più bella, germoglio di vuoto.
La bocca appena socchiusa è il tratto identificante di una figura quasi orrifica. Sembra un orco il protagonista di “Respiro”. Finalmente una bocca schiusa, commenterà il lettore/spettatore dell’immagine. Una bocca che dice o può dire, che non si barrica nel silenzio. È una bocca che s’incornicia però in un volto scuro, lumeggiato da due orbite simili a comete in un cosmo cupo. Qui gli occhi sono vivi e lo è anche la bocca. Eppure respirando non si può parlare. Come in musica, quel respiro sembra un’interruzione indispensabile a dare senso alla frase, appunto un fraseggio nel flusso dell’esistenza, indispensabile a farne balenare il senso. Un luogo simile a un limbo, dove tutto è ambiguo, tutto può essere. Ancora una volta l’inaudito che si fa spazio nella mente di chi guarda, affermandosi come unica, profonda realtà. Un inaudito che è anche presagio di trasfigurazione, resa immanente da un’anamorfosi iscritta nella figura dell’uomo. Basterà ridurne la grandezza, focalizzando l’asse prospettico sulla destra, anziché sulla destra, per vedere apparire il volto di una sorta di befana, orrida ma dagli occhi dolcissimi, anche lei con la bocca socchiusa, quasi pronta a dire qualcosa prima che irresistibilmente la forma maschile prenda ancora una volta il sopravvento. (Non so se l’anamorfosi sia voluta da Simone. Quando non fosse così, sarebbe ancora più importante, decisiva, perché rivelatrice di ciò la sua mano sa oltre la sua stessa coscienza). Il respiro dell’orco è la pausa, l’ambiguo, quasi ermafrodito, icona antonomastica dell’indistinto, di ciò che è prima della forma, del reale, ma che ne è fucina prima che abbia inizio l’inizio. Ancora una reminiscenza platonica (Timeo), ancora l’eterna realtà del sogno dove tutto è possibile, dove tutto è segno di qualcosa che non c’è. Esattamente come la nostra vita di esseri ostaggi del pensiero.
Chiude la serie di incisioni un altro “Sogno”, l’ultimo, nutrito di silenzio e iscritto in una sorta di topografia del corpo di una donna. Un essere femminile che gira il volto, mostrando un profilo che dice ed è negazione totale, segnalata senza pietà da un labbro sfuggente, nascosto, rinserrato in una incomunicabilità gemellata a quella delle palpebre chiuse, inclinate insieme all’intera testa verso il basso. Indica il buio, la fine… che è solo apparenza. Perché lì dove tutto tace, sgorga la voce del vuoto, una luce rigenerata in un altro sito del corpo, nel petto, dove arde evocando ancora una volta un inaudito, forse insperato, Altrove. Che c’è, germoglio di vuoto. perato, Altrove. Che c’è, germoglio di vuoto.

Mario Ricca

Der Traum_Simone Geraci, Torri del vento edizioni, 2015, Palermo.